Un primo contatto con l’opera di Fernando Botero può condurre fuori strada. La stravagante originalità di una pittura immediata per l’eleganza dei colori e la plasticità delle linee, attira fortemente la nostra attenzione emotiva, rischiando però di neutralizzare intenzioni di maggiore approfondimento.
Liberati dal coinvolgimento della gioiosa piacevolezza, si corre immediatamente verso considerazioni di carattere sociale. Indubbiamente, l’immagine di una figura opulenta e felice è simbolo di ricchezza, per cui, successivamente, risulta facile il passaggio ad interpretazioni di confronto tra il benessere delle società occidentali e la povertà dei paesi latino/americani, da cui Lui proviene. Anche questa rimane comunque un’osservazione abbastanza scontata, quasi banale. Capire Botero non è molto semplice e forse, per farlo, è meglio affidarsi alle sue stesse parole.
Il Maestro racconta, dimostrando ferma e risoluta consapevolezza delle proprie qualità artistiche, di una volontà di confronto tra le sue opere ed i più grandi capolavori dell’arte di tutti i tempi. Egli dice testualmente:”… scegliere qualcosa già scelto da altri, ma renderlo differente …” proprio per rassicurarci della sua fedeltà alla propria irrinunciabile identità. Intorno agli anni ’50, con il Suo arrivo in Europa, i musei di Francia, Italia e Spagna gli aprono orizzonti sconosciuti. In pochi anni si immerge in un mondo che, per struttura sociale e per espressioni d’arte, era a Lui, vissuto fino ad allora sempre in Colombia, totalmente sconosciuto.
Si rende conto che i valori estetici dell’universo latino/americano hanno dimensioni completamente diverse da quelle che si possono riscontrare nella cultura europea, di fronte alla quale Egli si pone in una posizione riverente, ma anche riflessiva. Nella sua Medellin i quadri si possono vedere soltanto in chiesa. Opere di buoni artisti e anche di grande efficacia dal punto di vista della fede, ma ovviamente espressione delle tradizioni locali.
L’atteggiamento di rispetto, comunque, non riesce a soffocare un senso di provocazione che sollecita un inquietante desiderio di confronto. Il Quattrocento Italiano, Velazquez, Rubens, Goya, Tiziano, Bonnard, Manet, lo stesso Leonardo ed altri, tanti altri ancora, sono più vittime che fonti di ispirazione. Ora le loro opere sono anche sue opere. Con grande onestà con se stesso, senza rinnegare le immagini della sua infanzia, i villaggi della Colombia, la sua gente, i generali, i vescovi, le proprie tradizioni, la propria cultura e soprattutto il suo modo di essere pittore.
L’opera “Gli Arnolfini” di Jan Van Eick, vista nella sua interpretazione, è un esempio molto calzante, in quanto Botero si preoccupa di ripetere scrupolosamente quanto dipinto da Van Eick. Tutti i particolari e gli oggetti sono reinseriti nelle stesse posizioni. Il lampadario, lo specchio, il tovagliolo in terra, il cane, lo strano cappello e tutto il resto.
Eppure, sono due quadri completamente diversi, uno è Van Eick, l’altro è Botero con la magia della sua luce, dei suoi colori, delle atmosfere allegre e gioiose della sua America.Il linguaggio, pur muovendosi in ambiente di piacevole e rassicurante morbidezza, mostra eccessi e forzature, tra inquietanti scontri di proporzioni opposte, che non gli impediscono di raggiungere impensati equilibri e grandiosi effetti di monumentalità.
Carlos Fuentes, nell’importantissimo saggio scritto per il prezioso volume “Botero Donne” dell’editore Rizzoli, così scrive: ” …non ci sono “grassi ” in Botero.
Vi sono spazi amplissimi. Vi è un’ampiezza spaziale che esige la sua pienezza …” Volumi e spazi, che si rincorrono esaltandosi nella vastità di un territorio ostile, ma partecipe e protagonista in una calligrafia che affonda le sue radici nelle antiche tradizioni colombiane, frutto di una formazione culturale maturata nelle vecchie chiese, negli antichi villaggi e nelle sue continue visite a Bogotà.
Sentendosi ancora più forte e sicuro delle sue scelte di vita e di Artista, la sua attività prosegue incessante, ma Botero, probabilmente, avverte che le sue figure, nella loro esaltazione volumetrica, abbiano necessità di riferimenti più importanti della sola superficie di una tela, in cui, peraltro, sembrano sempre ancorate a spazi di civiltà lontane. Soltanto la scultura potrà oggettivamente inserirle nella convulsa realtà delle metropoli occidentali. Da qui le prime esperienze, già nel ’60, ma il Maestro dimostrerà il suo grande amore per questa difficile e affascinante disciplina più tardi, quando nell’83 acquisterà un’abitazione a Pietrasanta, spazio magico per gli scultori di tutti i tempi e di tutte le nazionalità.